IL PAESE IN CUI CHIESE E MOSCHEE CONDIVIDONO LA STESSA PIAZZA Ricordi di un viaggio in Kosovo

Una chiesa ortodossa e una moschea, vicine, nello stesso piazzale. Succede a Ferizaj, suggestiva città del Kosovo orientale. Un simbolo, una realtà: chi conosce la vera storia della guerra che ha interessato questa regione balcanica alla fine degli anni Novanta del Novecento, sa che non si trattava di un conflitto religioso.  Se ha finito per apparire tale, lo si deve al fatto che una delle due componenti etniche coinvolte nella guerra - quella serba -  ha visto la propria storia intrecciarsi in maniera indissolubile con la chiesa cristiano-ortodossa e quest'ultima ha finito per rappresentare un simbolo del regime politico di Milosevic, oscura figura responsabile di aver condotto  azioni di genocidio nei confronti dei kosovari di etnia albanese, che hanno sempre rappresentato la componente maggioritaria della popolazione locale. C'è chi dice che, durante la guerra, l'istituzione ecclesiastica ortodossa non si sia mai espressa in maniera univoca contro il dittatore serbo. Non è questa la sede per disquisire di questo tema: questo è uno spazio in cui parlo di ciò che ho visto con i miei occhi. Così, ciò che posso testimoniare è la straordinaria convivenza armonica tra albanesi cattolici e albanesi musulmani: nel rapporto tra i due gruppi l'accento è posto su ciò che si ha in comune, ovvero l'appartenenza condivisa al mondo etnico-culturale albanese. Si lavora negli stessi luoghi, si frequentano gli stessi spazi nell'ambito del tempo libero, si fa parte di realtà e associazioni che comprendono tanto cattolici quanto musulmani.  Di questo prezioso angolo d'Europa, insomma, abbiamo conosciuto le tristi vicissitudini ma ignorato ciò che esprime di bello e quasi unico. Ovvero, l'incontro secolare di tradizioni religiose e culturali differenti e, soprattutto, la presenza di un Islam che si definisce moderno ed europeo.

Un momento del mio viaggio in Kosovo. Interviste alla popolazione locale e
storie di vita dei "musulmani europei"

 Secondo i dati che ci vengono dati dalle istituzioni religiose locali, in Kosovo solamente il 4% delle donne copre il capo con l'hijab. Questo si lega a ciò che i musulmani chiamano "Iman", la fede intesa come sentire interiore. Alle persone di religione islamica che vivono nel piccolo Paese balcanico di cui parlo, è ben chiara la differenza tra l'appartenenza nominale all'Islam e ciò che l'individuo vive nella profondità del proprio cuore. A questo sentimento interno viene dato un valore in un modo molto concreto: ciascuno, anche all'interno della stessa famiglia, può scegliere se e quanto praticare la religione. Mi è capitato di incontrare madri completamente indifferenti nei confronti della religiosità, con un figlio che, invece, era conosciuto per essere un grande praticante. Un secondo figlio, invece, si limitava a frequentare a venerdì alterni la moschea, a seconda del proprio sentire. Questo non è un dato da poco: la libertà di scegliere con quale grade grado di partecipazione esprimere la propria inclinazione spirituale segna la differenza tra un Paese laico ed uno che non lo è.

La mia ricerca sul campo, con la supervisione della professoressa Patrizia Manduchi, docente di Storia e Istituzioni Musulmane presso l'Università di Cagliari, mi ha portata a raccogliere storie di vita in diverse zone della regione, da Klina a Pristina, dalla Drenica alla zona di Ferizaj, fino alla zona montuosa sud-orientale, al confine con la Macedonia. Ovunque, incontravo anche i racconti dei superstiti del genocidio, storie di incredibile efferatezza subita ad opera di reparti militari e paramilitari serbi, in cui rimane una costante: l'immenso numero di persone che hanno visto un membro della famiglia morire davanti ai loro occhi. Ascoltando le parole di chi descrive queste esperienze si finisce con lo scoprire una verità che va oltre uno dei più superficiali dogmi del pacifismo nostrano. Si arriva in Kosovo convinti che i bombardamenti Nato del 2000 abbiano rappresentato il terrore per la popolazione albanese, che ai tempi della guerra la mia generazione immaginava come "stretta" tra il genocidio di Milosevic e le bombe della coalizione occidentale. In realtà, fare ricerca sul campo in Kosovo (nel 2006 e poi nel 2011) ha significato guardare in faccia questa radicata convinzione e osservare che si sgretolava di fronte ai tanti racconti ascoltati sull'arrivo degli aerei Nato. Ovunque, la stessa risposta: "Quando li vedemmo, iniziammo a festeggiare. Significava che finalmente, dopo dieci anni di violenze subite, qualcuno veniva ad aiutarci. Significava che la guerra era finita".

 Così, malgrado i più smaliziati affermassero di sapere che esisteva un legame tra intervento Nato in Kosovo e volontà di deviare l'attenzione dell'opinione pubblica dallo scandalo legato a Monica Lewinsky, non ho incontrato un kosovaro che non manifestasse una devozione  quasi incondizionata verso Bill Clinton. Ciò non era evidente solo a Pristina, dove gli è stata dedicata una gigantesca statua, bensì nelle centinaia di case da me visitate, in cui non manca mai la sua fotografia, spesso posta accanto all'immagine della Madonna o del Crocifisso.

Rimando ad una seconda puntata per parlarvi di uno degli aspetti più belli conservatisi a fatica all'interno dell'Islam kosovaro: la spiritualità Sufi. Di questa, per il momento, vi lascio solamente una foto meravigliosa, in cui si vede il tempio dedicato alla meditazione e alla preghiera presso la "tekke" (confraternita sufi) della splendida città di Gjiakova. Al mio prossimo post, scoprirete di più su questa preziosa perla di misticismo musulmano, aperta anche a eventuali praticanti cristiani e  nascosta nel cuore dell'Europa del sud.








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