Come ho scoperto la morte a cinque anni e perché è stato l'incontro più importante della mia vita


"Hai detto una cosa che mi fa arrabbiare, perché mi fa capire che pensi alla morte", mi ha detto qualche settimana fa una persona cara molto premurosa nei miei confronti.


Lo ha detto a seguito di un messaggio in cui dicevo: "Prendo tutte le precauzioni contro il Covid-19, ma se anche fossi sfortunata e dovessi lasciare il pianeta a causa sua, il bene che vi voglio rimarrebbe sempre con voi".


Per me, però, pensare alla morte vuol dire pensare alla vita.
Vuol dire ricordare che il tempo con le persone che amo non è infinito e per questo ogni singolo giorno ha un valore inestimabile.

L'ho imparato a seguito della morte di una persona giovane della mia famiglia, una mia cugina di diciassette anni che era l'immagine stessa della gioia, il sole di casa nostra. Io avevo solo cinque anni e i miei cari decisero di non dirmi subito che M. non c'era più: prendevano tempo, cercavano di capire come farmi accettare la morte.


Mi dissero che la notizia che avevo sentito al telegiornale - tre giovani annegate - riguardava una ragazza con lo stesso nome.


Ricordo che qualcuno disse: "Nascondi il giornale, la bambina sa leggere". Si riferiva ai necrologi. Gli adulti pensano a volte di essere furbi, ma io, che stavo entrando nella stanza, avevo sentito. Mia zia - ancora sconvolta - non spostò quel quotidiano ed io mi ci fiondai, con la sensazione di sempre, la stessa che mi aveva spinta ad imparare a leggere prima del tempo, ossia che "gli adulti nascondono sempre qualcosa ai bambini".


Da lì, ci vollero trattative diplomatiche per recuperare la mia fiducia, al termine delle quali mi rimase soltanto una dura verità da accettare e il trauma psicologico di tutta la famiglia, che creò, da parte degli adulti stessi, apprensione perenne per me, mia sorella e i miei cugini, come se qualcosa potesse portarci via da un momento all'altro come era accaduto a M..



"Ma se mi aveste detto che si può morire anche da piccoli, io con M. avrei giocato molto di più", dissi a mia madre. "Neanche altri cinque minuti posso vederla".


Eppure, anche nella sua tremenda realtà, questa esperienza mi ha insegnato ad apprezzare le persone qui e ora. A non rimandare le cose belle che posso fare con loro. A non pensare che saranno per sempre qui, perché non è vero.


Nella vita, dopo, confrontando le varie teorie sul dopo morte, ho ritenuto che la più razionale per me fosse quella della reincarnazione, ossia tornare a nascere tante volte quante ne sono necessarie per essere pronti a unirsi al divino, un giorno. Questo, certo, mi fa guardare alla morte in modo un po' diverso rispetto a chi è più materialista e rispetto a chi ritiene che esistano inferno e paradiso.




Tuttavia, esattamente come questi ultimi, io non so niente delle vite future. Ho solo quella presente, qui tra le mani. Solo adesso posso prendermi cura delle persone. Solo adesso posso amarle. Solo adesso posso esserci se serve o... Non esserci (ogni tanto è necessario anche questo). E l'ho imparato accettando la realtà di una perdita improvvisa.
Per questo il pensiero della morte non mi fa paura. I morti - che in tanti ricordano in questa giornata - mi hanno insegnato a dare valore ai vivi.

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